Reddito di cittadinanza: non è così che si combatte la povertà!

Il ReI, pur deficitario nella dotazione finanziaria complessiva, attribuiva un ruolo prioritario alla presa in carico del soggetto pubblico -il Comune- attivatore del sistema integrato di servizi territoriali con cui costruire, in seguito ad una valutazione multidisciplinare, un progetto di inclusione personalizzato per il nucleo beneficiario di cui l’attivazione lavorativa era una componente, importante, ma non necessariamente unica o prioritaria, valorizzando, inoltre, il ruolo di programmazione delle Regioni e tutta l’impostazione del sistema integrato dei servizi pubblici delineato dalla legge 328/2000, impostazione smantellata da questo provvedimento.

La bozza di decreto rende residuale il sistema integrato di servizi pubblici territoriali e considera come condizione prioritaria la dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro per tutti i componenti maggiorenni del nucleo familiare, utilizzando risorse destinate al contrasto alla povertà per erogare incentivi alle imprese nel caso di assunzione di benificiari maggiormente “spendibili” sul mercato del lavoro.
Il Reddito di Cittadinanza, che per gli over 65 anni assume la denominazione “pensione di cittadinanza”, inoltre, non è in alcun modo un provvedimento che innalzerà le pensioni minime o le pensioni sociali.
Il testo, che prevede almeno cinque ulteriori decreti attuativi e definisce il RdC un livello essenziale delle prestazioni, per il vincolo delle risorse disponibili e i meccanismi di accesso dati, che per la parte di sostegno al lavoro costituiscono una forma molto rigida dei sistemi di attivazione per i disoccupati, determina aspettative eccessive rispetto alla effettiva possibilità di accesso e di inclusione di tutti i soggetti in condizione di bisogno, e lontane dagli esiti di una misura di contrasto alla povertà.
Non si combatte la povertà se non c’è lavoro e non si rafforzano gli investimenti nelle infrastrutture materiali ed immateriali del Paese.
Nel merito delle previsioni della bozza del decreto RdC segnaliamo le nostre prime principali preoccupazioni rinviando le analisi di dettaglio a quando sarà approvato il decreto: Sui beneficiari: Il limite per le condizioni di accesso legato alle condizioni di residenza non può essere condivisibile ed è del tutto inaccettabile perché discriminatorio nei confronti dei cittadini stranieri.
I criteri di accesso reddituali e patrimoniali ampliano la platea di riferimento, oltre la povertà assoluta, con un stanziamento però insufficiente all’erogazione di benefici economici congrui. La specifica tipologia dei requisiti reddituali e patrimoniali prevista che non distingue adeguatamente, ai fini del beneficio, nuclei in possesso di patrimoni, immobiliari o mobiliari, e nuclei che ne sono privi, unitamente alla scala di equivalenza introdotta -differente da quella prevista per l’ISEE-, che prevedendo un limite massimo di 2,1 danneggia le famiglie più numerose e con minori. Così come l’esclusione dalla platea dei nuclei in cui sono presenti soggetti disoccupati in seguito a dimissioni volontarie da meno di 12 mesi, rafforza la considerazione che il RdC oltre a non essere una misura efficace contro la povertà, è una misura che risponde in modo ineguale alle diseguaglianze.
La presa in carico dei nuclei familiari in condizione di disagio economico non è più affidata al servizio sociale professionale dei Comuni, unico soggetto idoneo a valutare nel suo complesso e nella sua eterogeneità l’origine e le cause della situazione di povertà, ma a parametri oggettivi, durata dello stato di disoccupazione, età anagrafica, etc, che non sono di certo una valutazione soggettiva e approfondita del bisogno. Questa modalità oltre a non porre alcuna attenzione alla povertà educativa e alla condizione dei minori in generale, rivolgendo gli interventi ai soli componenti il nucleo familiare maggiorenni, non affronta il tema delle competenze quale fattore fondamentale di uscita dalla condizione di povertà.
In merito a quanto previsto in termini di offerta congrua, facendo riferimento all’art 25 del d.lgs. 150/15 del 14 settembre, che a sua volta rimanda al decreto ministeriale di definizione della congruità, D.M. n. 42 del 10 aprile 2017, i termini di congruità non possono essere solo quelli chilometrici, per altro rivisti in termini fortemente peggiorativi, in quanto ben altri risultano essere i criteri quali, la coerenza con le esperienze maturate, la tipologia e la durata del contratto proposto, l’entità della retribuzione. Il meccanismo chilometrico individuato, a discapito della qualità del lavoro che si offre, è fortemente penalizzante per i percettori del reddito di cittadinanza.
E ancora andrebbe chiarita la confusione per la quale un soggetto in NASpI, rispetto all’accettare o meno, risponde al Centro per l’Impiego in ragione del D.lgs. 150/15 e del DM. 42/17, mentre, parrebbe, che nel caso all’interessato si sommi la condizione di RdC, lo stesso debba rispondere ad altri criteri.
Evidenziamo poi con preoccupazione la previsione di obbligo a fornire fino a a 8 ore settimanali di disponibilità all’impegno a progetti di utilità collettiva in ambito comunale, una misura che rischia di replicare esperienze degenerate nel corso degli anni, obbligando di fatto a un lavoro gratuito che, oltre a sostituire lavoro retribuito, rischia di “far pagare“ agli stessi percettori del reddito di cittadinanza il loro sostegno economico.
Il capitolo incentivi vede protagonisti le imprese, i soggetti privati accreditati alla formazione ai sensi dell’art.12 del d.lgs.150/15.
E’ previsto che tali Enti possano godere di incentivi, in genere sotto forma di sgravi contributivi, nel caso il soggetto in RdC, in ragione di avergli fornito disponibilità di informazioni e formazione, riesca ad essere collocato a tempo pieno ed indeterminato e non venga licenziato nei successivi 24 mesi.
L’esperienza, almeno per ciò che abbiamo visto con l’Assegno di Ricollocazione, ci insegna a dover temere di possibili rapporti di interesse tra aziende e tali soggetti privati i quali, a seguito di accordi che portano alla collocazione del soggetto al termine del percorso di formazione, possono ricavare somme anche più alte di quelle viste nei recenti provvedimenti di incentivo all’assunzione o per la gestione dell’Assegno di Ricollocazione.
Continua così a restare “insopportabile” l’idea che qualunque misura di sostegno a soggetti deboli debba trasformarsi in un sistema di incentivazione per altri, imprese e soggetti accreditati in questo caso, i quali, quest’ultimi, si vedono elargire benefici ben più alti rispetto a quanto ora viene riconoscimento loro per la gestione dell’Assegno di Ricollocazione per soggetti in NASpI o disoccupati e nel caso delle imprese tali incentivazioni rischiano peraltro di sommarsi agli incentivi già previsti dall’assegno di ricollocazione.
Disposizioni finanziarie per attuazione del programma del RdC: circa le risorse investite per sostenere il RdC, pari a circa 7 miliardi l’anno, è importante che si chiarisca la sorte dei programmati 250 milioni per gli anni 2019 e 2020, messi in dote ad ANPAL Servizi.
Da quanto si riporta tale risorse dovrebbero servire per finanziare i co.co.co. delle figure professionali quali i “navigator”, ignorando totalmente i limiti strutturali dei Centri per l’Impiego, così come denunciato dal recentissimo rapporto Anpal, senza il superamento dei quali nessuna politica di inclusione lavorativa può essere efficace, tanto più in assenza di un accordo con le Regioni.
L’impostazione del decreto, infine, oltre ad essere impropriamente lavoristica, sottende un intollerabile approccio “punitivo” della condizione di disagio economico, come la norma sulle sanzioni esplicita in modo intollerabile.
Roma, 14 gennaio 2019